07 agosto 2008

Il dissidente e le onde corte

Molto bello su Repubblica di ieri, come quasi sempre quando a firmare è Adriano Sofri, il pezzo rievocativo delle (alterne) fortune italiane dello scrittore russo Alexander Solzhenitsyn, scomparso in questi giorni quasi novantenne. Eravamo giovani liceali quando la persecuzione dei dissidenti dell'ex impero sovietico infiammava il dibattito politico. Verrebbe da pensare che a quindici anni tutto ti sembra migliore dello stantio pettegolezzo sull'eterno scontro tra un imprenditore spregiudicato (come forse è giusto che siano gli imprenditori) e una giustizia stanca di difendere un principio di dirittura morale che da queste parti non interessa a nessuno. Io ricordo che a difendere le ragioni di Solzhenitsyn c'erano nomi come quello di Indro Montanelli, forte oppositore della sinistra di allora. Guarda caso parecchi anni dopo (Solzhenitsyn rientrò in patria quando Berlusconi salì per la prima volta al governo) Montanelli metteva in guardia contro l'attuale capo dele destre, amico dello stesso Putin che Solzhenitsyn apprezzava come ideale rappresentante della rinascita dello spirito nazionale russo: rigida ortodossia religiosa, profonda diffidenza nei confronti dell'occidente, del capitalismo e degli ebrei. Che strani intrecci, che rimescolamenti in archi di tempo tutto sommato brevi.
Il magnifico blog di Kim Andrew Elliott in questi giorni ha citato tre contributi del New Yorker, (per la verità l'articolo del New Yorker risale agli anni della fine dell'esilio) del New York Times e della National Public Radio sulla morte di Solzhenitsyn, che per vent'anni aveva risieduto negli Stati Uniti. Sono ritratti molto precisi e lucidi e l'aspetto che ci interessa specificatamente è il rapporto tra lo scrittore russo e la radiofonia. Radio Liberty faceva arrivare in Unione Sovietica gli scritti di denuncia pubblicati dal premio Nobel. Il quale, era a sua volta un accanito ascoltatore dei programmi in onde corte, come racconta sul New York Times Serge Schmemann, figlio di un teologo ortodosso che Solzhenitsyn aveva incontrato a Zurigo e successivamente, dopo la sua espulsione dall'URSS, durante un breve soggiorno in Quebec (prima di stabilirsi definitivamente in Vermont).
I came to cook and drive. All Solzhenitsyn wanted were potatoes roasted with onions for his meals and a small, inconspicuous car for transport. But the conversations were electrifying: it was as if what Solzhenitsyn wanted from my father was an instant transfer of all the Russian history and ideas that had been denied him in the Soviet state.
The talks were interrupted only for BBC Russian-language news, which Solzhenitsyn would rush outdoors to tune in to on a portable shortwave radio. He had lists of questions and took copious notes in a tiny hand — perhaps another legacy of a lifetime of hiding writings and thoughts from “them” — and the conversations continued even on long treks through the countryside. There was still ice on the lake and, as in Russia, only the first hint of green in the woods. Solzhenitsyn said our fields and forests lacked the songbirds of the Russian countryside. This was not Russia.
That was always the reference point: Russia. Everything — the conversation, the setting, the food, the writing, the shortwave broadcasts, even the safari-style jacket and the patriarchal beard he wore — was about Russia.
L'immagine del dissidente in esilio che si catapulta fuori di casa per meglio sintonizzarsi sulle trasmissioni in onde corte nella sua lingua madre, la lingua della Grande Madre russa, è per me straordinariamente autentica e familiare. Anche se irrimediabilmente fuori moda, un simbolo ancora più vecchio e improponibile di quei turistici tratti di muro che avevo visto a Berlino fino a uno o due anni fa. Le onde corte sono diventate un libro di storia scritto in una lingua che presto nessuno capirà più e rimpiangerà di non poter leggere.

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